Ascoltatori radiofonici: una razza in via di estinzione?

Un report dell’EBU segnala un calo negli ascolti, specie tra i più giovani, e non è un buon segno

Non più tardi di qualche settimana fa le radio italiane salutavano con grande entusiasmo i risultati dell’ultima rilevazione degli ascolti, relativa al primo semestre 2024, che sembravano indicare un presente florido e un altrettanto promettente avvenire per tutto il comparto. Allargando un po’ il campo di analisi, però, la realtà potrebbe essere diversa da quella che traspare dai dati nazionali. Nel mese di agosto, infatti, la European Broadcasting Union, che raccoglie tutte le emittenti pubbliche radiotelevisive del continente, ha pubblicato come di consueto Radio Audience Trends, il report annuale sui consumi radiofonici in Europa, che gli iscritti al servizio – con sottoscrizione libera e gratuita – possono consultare nella sua interezza sul sito di EBU. Uno strumento importante per capire i cambiamenti in atto, per via della metodologia adottata (Radio Audience Measurement, uno standard a livello internazionale) e per l’orizzonte temporale preso in esame (il report comprende un’analisi pluriennale che mette in relazione il 2024 con il quinquennio 2018-2023). E le evidenze non sono incoraggianti.

Stando a ciò che emerge, i cittadini europei ascoltano ogni giorno la radio per 2 ore e 13 minuti in media. Ottimo? Sì, ma fino a un certo punto: cinque anni fa, erano ben 18 minuti in più. Il costante calo del tempo di ascolto non è l’unico dato che sembra indicare possibili orizzonti foschi. Paradossalmente, infatti, rispetto a quanto emerge dalla nostra rilevazione nazionale, che vedeva in testa i grossi network commerciali, secondo EBU va un po’ meglio alle radio pubbliche che alle private: le ascoltano in meno (su base settimanale, il 43% del totale), ma perdono meno ascoltatori rispetto alle altre. Il che si spiega anche con l’età media degli ascoltatori: se le radio statali si concentrano su programmi di servizio o di approfondimento destinati a un pubblico adulto, tradizionalmente più fedele e stabile, chi fa intrattenimento fatica a catturare un target meno anziano. Dai primi 2000 a oggi, infatti, il pubblico giovane risulta avere praticamente dimezzato i tempi di ascolto quotidiano delle radio. In assoluto, ovviamente, non è una buona notizia: se infatti le radio pubbliche possono tradizionalmente permettersi qualche calo sporadico, avendo una missione di tipo diverso (il fatto che aumentino gli ascolti è relativo, fintanto che assolvono al loro ruolo di servizio), sono soprattutto quelle private ad avere bisogno di tenere alti gli indici, per attirare gli investitori pubblicitari che permettono loro di sopravvivere.

Qualche giorno fa alcuni commentatori italiani avevano teorizzato che il crollo di alcune piattaforme di streaming in borsa poteva essere una buona notizia per le radio, in quanto la discografia avrebbe probabilmente ricominciato a investire maggiormente sulla radiofonia. Purtroppo per i diretti interessati, però, non è così automatico. Quantomeno non lo è in Italia, dove il pubblico è più attempato che altrove, e quindi meno attrattivo per chi deve promuovere musica: nel 2022 l’età media degli ascoltatori radiofonici era stata calcolata in 47,32 anni, e tra le radio presenti nella top 200 solo 8 stazioni in tutto (piccole emittenti locali, per di più) avevano un pubblico medio under 35. Ma non è automatico neppure negli Stati Uniti, dove la radio è un’industria con caratteristiche molto diverse rispetto a quelle europe. Basata su un sistema commerciale e concorrenziale fin dai suoi esordi, con molte più stazioni private che affollano il mercato, è ben più ascoltata che in Europa, a causa dei lunghi tragitti in automobile tipici della quotidianità americana. Anche qui, però, l’età media degli ascoltatori è piuttosto alta: 46 anni stando a un’indagine del 2022 di Edison Research, ben 12 più dei fruitori di musica in streaming, che invece ne hanno circa 34.

La diversificazione dei mezzi e dei sistemi di diffusione dei prodotti audio, oltretutto – che in America è ben più avanti rispetto allo standard italiano, dove la radio è ancora prevalentemente veicolata in FM – fa sì che molti investitori si stiano spostando progressivamente su radio digitali e satellitari, o su servizi personalizzabili come Pandora e Spotify. Il paradosso, segnalato da un articolo di RadioInk dello scorso maggio, è che globalmente negli Stati Uniti gli investimenti per la pubblicità in formato audio sono aumentati (17 milioni e 360mila dollari nel 2022), ma la fetta destinata alle radio tradizionali è crollata drasticamente (poco più di 11 milioni nello stesso anno). In base alle proiezioni, si prevede un calo fisiologico ancora più importante nei prossimi anni (dovrebbe arrivare a poco più di 9 milioni e mezzo entro il 2028). Per continuare a essere attrattive e competitive con i servizi streaming, insomma, le radio commerciali italiane e non – e in particolare quelle che adottano i formati della radio di flusso, puntando tutto sulla musica – in futuro dovranno ripensare al loro modello nell’ottica di attirare un pubblico più giovane e dinamico, anziché cercare di tenersi stretti gli ascoltatori di fascia più adulta. Anche perché, fisiologicamente, si tratta di un pubblico che con il passare dei decenni andrà ad assottigliarsi sempre di più, se non ci sarà ricambio generazionale.

Fonte: musicbiz.rockol.it